LA LETTERA BRETONE

L’ultima cosa che ricordavo era che stavo ascoltando Paolo mentre parlava e intanto io che pensavo che era bello sentirsi cullare dal mare. Poi mi ero addormentata.

Arrivammo a Skyros con l’ultima nave di mezzanotte. Il mare era un tavola blu dall’odore buono. Il cielo invece era in tumulto. Pioveva e c’erano tuoni a illuminare nuvole come labirinti, in fila, una dentro l’altra.
Scendemmo al porticciolo con gli zaini in spalla. L’asfalto era lucido e rifletteva la luce delle poche lampade intorno alla piazzetta. Non fu difficile individuare il grazioso alberghetto che ci avrebbe ospitati per quella notte. Ci accolse Sula, dagli occhi neri e un vestito di garza chiara. Non più giovane e con molte rughe in più, portava a spasso l’antica bellezza con la noncuranza di chi ha ancora spalle dritte e un sorriso del tutto naturale. Ci salutò sull’uscio della stanza rimandando i convenevoli di rito alla mattina successiva. Ci addormentammo immediatamente con la pioggia che ora era diventata sottile, appena dei fili invisibili dai riflessi d’argento.

Mi svegliai che albeggiava. Affacciata al balconcino della stanza sul porto, vidi che piovigginava ancora. Grosse nubi sbarravano il passaggio ai raggi del sole cosicché l’azzurro dei muri delle taverne, il giallo dei tavolini e il verde delle viti sui pergolati erano appiattiti in un grigio opaco e senza luce. Ma l’isola mi sembrava bella ugualmente. Ero euforica.
Io e Paolo scendemmo a fare colazione in una delle poche taverne del porto. Un cortile indaco, con grandi gardenie in vasi di terracotta sbrecciati, ospitava pochi tavolini rotondi con tovaglie celesti e bassi portafiori in ceramica bianca.
Mangiammo pane abbrustolito con burro e marmellata e ingollammo gran sorsi di caffè americano senza zucchero. La proprietaria della locanda era una greca con in faccia l’espressione di chi aspetta la fine del mondo e resta tuttavia imperturbabile e calma. Piuttosto piccola di statura, bruna, aveva una capigliatura ondulata e lunghissima, sciolta sul fondoschiena che, partendo da una vita dalla circonferenza colossale gli si allargava in basso ancora più imponente in tutta la sua magnificenza e che lei portava in giro con evidente orgoglio di giovane matrona. La sua taverna, come ci fu svelato da lei stessa più tardi, era la taverna più antica dell’isola. Mostrandoci un paio di foto in bianco e nero, ci raccontò, in un inglese malfermo, che le mura risalivano al lontano 1906. La locanda era del bisnonno e ora era lei a prendersene cura, potando i fiori, sprimacciando i cuscini sulle seggiole, preparando gli ottimi toast e caffè per i turisti.

In disparte, ad ascoltare la nostra conversazione, c’era un uomo anziano, un altro avventore mattiniero come noi. Scoprimmo ben presto da un suo saluto e un invito a sederci al suo tavolino, che era un abitante dell’isola. Si chiamava Kostantinos. Portava con disinvoltura una bandana con piccole margherite bianche disegnate sulla stoffa color cremisi. I capelli, folti e bianchissimi, appiattiti ai lati della fronte per via del nodo, ricadevano gonfi e riccioluti ai lati delle guance e del collo. Un sorriso aperto e l’andatura veloce gli conferivano un’aria giovanile e confidenziale.
Aveva un piccolo emporio confinante con la locanda della signora dal deretano enorme. Per la verità, l’unica stanza del negozietto aveva pochi articoli esposti sugli scaffali. Qualche pacco di pasta, cartoni di latte infilati in grossi scatoloni in cartone, yogurt impilati all’interno di un frigorifero altrimenti vuoto, dalla porta in vetro, opaca e rigata. Arachidi e sottaceti. Sul bancone scuro e polveroso in entrata c’era di tutto. Bloc-notes per appunti, foglietti sparsi con i conti della spesa, buste di plastica appallottolate in gomitoli luccicanti, penne e matite in barattoli ammaccati. Sui ripiani dietro il bancone invece, una quantità di lettere recanti sulle buste mittenti diversi, provenienti da tutto il mondo, se ne stava ammonticchiata in ordine, frutto di una vita intera spesa a ricevere turisti che, in visita all’isola, avevano poi stretto amicizia con il vecchio Kostantinos.

Un tempo lontano lui era stato un pescatore e nelle ore libere portava in mare, sulla sua piccola barca impregnata dall’odore pungente di pesce, affiatate coppiette canadesi, robuste e timide fanciulle francesi o diafani maschi inglesi in gruppi di smilzi giovinetti dai calzini corti e sandali ai piedi. Gli faceva fare il giro dell’isola lì dove il mare restava quieto e le onde svelavano sempre le stesse forme e colore, tranquille e tiepide. Tra tutta questa gente c’era sempre qualcuno che poi gli scriveva, a Kostantinos. Inviandogli al contempo le fotografie scattate insieme in ricordo della loro vacanza. C’era la lettera di una coppia di anziani irlandesi in vacanza a Skyros la pasqua precedente. Ricordavano le lunghe passeggiate tra vicoli di pietre grezze, carretti trainati da asinelli e gatti randagi, dal pelo fulvo e docili alle carezze dei passanti. C’era la lettera di un gruppo di parigini con la foto dei loro volti sorridenti, abbracciati in gruppo, leggermente sbronzi. Kostantinos quando ci parlava di loro, lo faceva vigile e sognante, ricordando nomi e volti. Essi diventavano parte dell’isola, delle strade, della mappa di quel luogo battuto dal vento, dalle alte scogliere di ginestre e strade ornate di oleandri. Quando conoscemmo Kostantinos, il vecchio doveva avere più di settant’anni ma la sua mente restava lucida e le sue mani non tradivano il minimo tremore.

Kostantinos ad un tratto cavò dal ripiano nascosto sotto il bancone, una grande busta marrone e ce la piazzò davanti con un colpo ben assestato. Il mittente aveva indirizzo francese. Estrasse con estrema cura, dalla busta piatta e sottile, una foto in bianco e nero che mostrava kostantinos steso sul fondo di una barca di pescatori, con l’espressione beffarda di chi sa che ha ancora dalla sua parte una lunga giovinezza, orgogliosa e magnifica. Indossava un jeans e una polo chiara. Rivolgeva il suo miglior sorrido alla misteriosa fotografa. Il mittente era, infatti, una giovane bretone di nome Virginie. Non potemmo vedere il suo volto e Kostantinos non lo rammentava. Per la verità ci disse che per lungo tempo non riuscì a ricordare chi fosse quella donna che gli scriveva dopo 50 anni! Anzi, per la verità nessuna parola o frase accompagnava la foto che giaceva solitaria e misteriosa nella busta. Disseminava intorno a sé un’aurea di sogni e bugie e promesse ed errori. Solo moltissimo tempo dopo, ci confidò Kostantinos, un ricordo improvviso lo colpì come una frustata riportandolo indietro alla sua giovinezza e all’ingenuità di certi giorni lontani. Quando lui e Virginie scappano a piedi nudi sulla spiaggia, salgono in fretta sulla barca e scivolano in mare aperto. Lì, soli, accaldati e tremanti si guardano in volto. Forse lui prova ad accarezzarle il collo nudo. Forse un timido bacio. Lei prova a schernirsi. Lui prova vergogna, la fronte e le braccia coperte di sudore. Lei confusione. Entrambi desiderio. E tutto resta come sospeso sulle spalle curve di entrambi a guardare fissi il mare che sotto di loro ostenta un blu acceso, offensivo, senza pudore. Ora, il ricordo di quella donna che gli scriveva dopo cinque decenni si era conficcato nel suo cervello provocandogli un fremito sotto la pelle, restituendo caldo al suo cuore.

Virginie si era innamorata perdutamente del giovane pescatore greco non riuscendo mai a confidargli quella passione sotterranea e bruciante che lui, invece, non riusciva a sentire. Tutto quello che riusciva a fare, provando un duro grumo di disgusto era restare fisso con gli occhi sui suoi capelli biondo cenere, sulla forma dei suoi piccoli seni. Sentire quello spostamento dalla gola al ventre come un fremito sotterraneo di cui aveva imbarazzo e vergogna. Per Kostantinos, Virginie era solo una ragazzina dall’accento strano con un costume a fiori e un vestitino di cotone chiaro a coprirle le ginocchia lisce e abbronzate. Le aveva voluto bene da subito, ma le sue fantasie erano intense e proibite e non poteva più risistemare le cose dopo la gita in barca. Le disse addio tenendo gli occhi bassi in un pomeriggio in cui gli oleandri avevano perso i petali nel vento freddo del Meltemi. Virginie doveva aver scattato quella foto molti giorni prima in cui, entrambi ancora spensierati e inconsapevoli, percorrevano la liscia, oscura ondata di travolgente e insopportabile dolcezza. In lei, la giovane bretone, il vento freddo e impetuoso del nord non c’era più. Era stato sostituito dal vento leggero e profumato di mirto e basilico del sud, che le faceva volare via dalla testa il cappellino di paglia tempestato di piccole rose di stoffa rossa. Aveva sciolto il suo riserbo e la freddezza di un’indole abituata al gelo e alle maree.

Per cinquanta lunghissimi anni ella aveva difeso dall’incuria del tempo il ricordo dello sguardo azzurro di Kostantinos. Forse quel bacio, forse una carezza. Perché si era decisa ora a spedire quella foto? E perché non aveva aggiunto una frase, una firma, un saluto? Non è solo la voce a mancare accanto a quella foto, ma anche il respiro. Come se si fosse interrotto e trattenuto e aspettasse qualcosa o qualcuno per inspirare di nuovo. Nessun riferimento alcuno, come a voler lasciare al caso il ricordo di kostantinos. Se il vecchio non si fosse ricordato di lei, pazienza. Come allora, neanche ora il risentimento avrebbe occupato il cuore puro di Virginie. La foto sarebbe rimasta nell’oblio insieme al suo amore perduto. Se invece Kostantinos si fosse rammentato di lei, allora il suo cuore avrebbe potuto battere in eterno. Non aspettava risposte, Virginie. Il suo amore cauto e durevole, insieme all’obbedienza e all’accettazione di una vita trascorsa senza conforto è il suo rituale. Il suo irragionevole stato di calma. Avrebbe capito ugualmente se Kostantinos si fosse ricordato di lei. Le si sarebbe irradiato nella pancia, senza dolore, un senso di abbandono del corpo. Un remota soddisfazione che le avrebbe fatto chiudere gli occhi in una lunga lacrima.

Riesco a immaginare la giovane donna bretone, ora. La vedo, Virginie. La vedo chiaramente. Ormai anziana, seduta su un dondolo sotto il portico della sua casa sulla spiaggia. A guardare le maree andare e venire. Scoprire ampie porzioni di spiaggia svelando il dorso di conchiglie luccicanti al sole. Aspetta l’unico raggio più chiaro e luminoso degli altri: Il suo Kosta… e lei avrebbe saputo che lui aveva sorriso e pianto al ricordo del suo viso.

Incanto Errante

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