Premio di poesia e prosa

Lorenzo Montano 
 
T R E N T A D U E S I M A  E D I Z I O N E  ( 2 0 1 8 )

“Raccolta inedita”, “Opera edita”, “Una poesia inedita”
“Una prosa inedita”, “Opere scelte”.

Il Premio di Poesia e Prosa Lorenzo Montano rientra nelle finalità dell’Associazione culturale Anterem. Che sono quelle di diffondere la conoscenza di forme stilistiche e di pensiero che trovano nella necessità e nella bellezza le loro ragioni.
Le opere dei vincitori per tutte e quattro le sezioni in cui il Premio si articola – “Una poesia inedita”, “Raccolta inedita”, “Opera edita”, “Una prosa inedita”, – vengono immesse in canali distributivi e di conoscenza che fanno capo a critici, poeti, abbonati, estimatori, biblioteche civiche e universitarie. La loro vita non si esaurisce quindi nell’ambito del cerimoniale legato alla premiazione. Ma continua altrove. Così come le opere dei finalisti e segnalati che in ogni edizione costituiscono la trama del Forum Anterem di poesia e prosa.
Dedicando il Premio al veronese Lorenzo Montano noi di “Anterem” abbiamo voluto ricordare un poeta, un narratore, un critico che è stato uno dei fondatori di una rivista come “La Ronda”. Nei testi di Montano abbiamo trovato per molti versi la conferma del nostro concetto di “ricerca”, che per noi corrisponde a quello di tensione mai deposta. Una profonda tensione dell’essere in ascolto dei molteplici impulsi dell’esistenza. Una tensione che tiene conto di tutti quei processi interiori dove luce e ombra indissolubilmente convivono.

 

Segnalazione della Prosa Inedita di Paola Casulli – AKEDIA (Through darkness to light) con nota di lettura, pubblicazione in “Carte nel vento”, invito al Forum Anterem – 20 Ottobre 2018 ore 14,30 Premiazione Biblioteca Civica Verona –

AKEDIA (Through darkness to light)

Nessuno resta inerti come siamo nella bufera Nessuno ha parole in mezzo ai campi inseguiti come siamo dai lupi dai loro artigli rossi una zampa davanti all’altra raggiunti oltre il legno e il ruscello odori teneri noi E subito dopo caprioli di sangue ché il lampo a ferirci è senza pietà che muove i perdonati Nessun suono o rumore separa le ombre restiamo sulle zolle distesi relegati nella storia di esseri invisibili in mezzo a tanta dissacrazione siamo le foglie sopra l’erba La metamorfosi concessa ai fiori che imputridiscono nutriti dal vento torturati dal fango nell’istante dell’ubbidienza restiamo sulle pianure fissi e immobili a conoscere un solo Creato senza spirito che di carne ne abbia il riflesso senza corpo che abbia un residuo flebile tra le mascelle sulle pianure restiamo infiniti nel pianto

È la mia calma che ha mandato via tutti O il mio odio lento di altre piogge Come goccia sull’orlo di una tazza l’ho vista scivolare via Non c’è spiegazione della sua gravità della goccia Essa scivola e basta E così fanno tutti solcando la piaga che non assolve Questa è la carezza del nulla La materia in cui l’attimo freme e si concede all’occhio del meridiano spaventoso quella che (volendo trionfare) si arrampica sulla parete impervia di ogni anticipo e cade nel supplizio di ciò che tutto scorre

Noi abbiamo lo stesso supplizio La stessa preghiera ripida linea sonora caduta pesantemente al suolo Qui si spengono tutte le pareti le elegie i mormorii e poi le urla La triplice specie che si chiama – Padre – e dice << prega >> tacendo i salici nel petto più di- stante il Figlio che dice << sii cauto>> flagellandosi nella gloria del ritorno e infine il legge- ro turchino Spirito a sussurrare <<voi siete me>> o forse più esattamente con stizza a chiedere nella molle grazia di qualche scirocco << voi siete me?>> Ebbene questa piratesca forma di ogni cosa ha molte stanze e tra poco farà buio si sentono sbattere porte cigolii ragnatele che pronunciano esili Tu fasciato nella benedizione dell’ametista hai tutto questo nella testa vero? Anche tu incline al gioco dei cenobiti prima del punto bendato sei nel petto della Vergine lo stupore delle pupille riverse ecco siamo simili a Lei la ruga del lungo assedio vittime di lunghi balzi nel mondo a rovescio a frantumare le uova molli del demonio Nessuno resta nell’intervallo di attese senza muri a scambiarsi una morte con un’altra bardo sfuggiti di mano

A questa prima morte senza peso ho dato pietre per la chiocciola del divenire Alla seconda morte senza forma soltanto strazio che è meno di niente Alla terza morte senza storia ho dato scaglie grigie di una devozione di rami Alla quarta morte che dicesse appartenenza o invocasse il frastuono dell’onda che aggredisce la roccia che raggela la rena che si ammassa sugli scogli e li rende lividi di afflizione ho dato ginocchia allentate dalle redini a misurare il sonno e le rose e le ortensie e i gelsomini svanenti Io assolto dalle consonanti di un abbandono Io battezzato nell’incandescenza delle tue costole costretto a sentire la tua voce a dirmi c’è ancora un Est sopra le cascate Ma la bellezza che nessuno comprende una specie di intimità è andarsene all’improvviso come fuco o lombrico e porgere il buio alla chioma delle candele Creare quel bianco uguale alla mia chiarezza il peso istintivo del Perfetto

Nessuno resta in questa aurora obliqua Nessuno ha parole nei solchi della terra dove pure le formiche ci somigliano con i neri dorsi sui crinali e insetti fosforescenti rilucono sui fondali al di là delle foreste

Tenere d’occhio la strada ecco questo è l’importante Quel desiderio e l’intelligenza nella spietata nudità di deserto ciò in cui io posso scivolarci dentro e Tu patire il mio sguardo Io torturato gelido fisso nel perdere ogni cosa una preistoria di cancelli aperti sul tuo giardino di liquirizie così oscuro perverso e perduto Esattamente cos’è che voglio vedere? In questo luogo perfetto emisfero? Ha smesso di piovere Tu sei geniale quando dici vado a vedere fuori non corri il minimo rischio in tal senso tremi così tanto tu che sembri così veramente vero

Nessuno resta in questo paradiso che aggrega la pelle alla velocità trattenuta del tempo e della terra all’affondo di una spada e Io la vedo fuoriuscire dalle maniche troppo larghe a tradirmi a colpirmi polvere fine di gesso Non temere sopravvivi alle poche cose alle storie e agli addii ai polpacci di tessuto alla carnagione di acero a renderti lieve al vento e al declino

E così ora conto fino a dieci prima di entrare nella penombra nel crepuscolo color fumo dei miei gomiti dei miei fianchi delle mie mani in quel vento australe arrendevole quasi in quel fioco esserci in quella colomba da poterla tenere nel palmo di una mano sola l’unica che mi è rimasta L’altra è sulla corteccia di un albero a scolpire il grido degli agnelli

Nessuno resta È questo sedersi come nuvola spazio che coincide sulle nostre schiene impure le ali sui cardini sospese Questo è ciò che affama in quell’aria scolorita dal sole un orlo scucito in una vicinanza apparente E non lo sai mai con certezza se saltare lo steccato o andare a salti giù per il ripido sentiero semplicemente con la testa piena di stupore restare avvinghiato al fruscio delle foglie sentire sotto i piedi l’erba che circonda le caviglie che risale placida sul tuo ventre mentre tutto ciò a cui tieni siede nel vecchio inverno spento delle litanie di una voce che imita la pioggia con quel cadere giù confusa prima del risveglio sono i sogni che annegano con le narici piene di muschio azzurrate in grigio-verdi una notte dopo l’altra in avvelenamento progressivo assumiamo ridicole ali da cornacchia indossiamo maldestri sguardi da combattere e dirci catene ho visto quel filo grigio appeso al collo una sfilza di croci tra le mani a chiederti Con la bocca chiusa perlopiù Senza mai smettere di pensare certe cose non sembrano vita mentre le fai.

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