L’adhān del muezzin echeggia in tutta la piazza. Sembra voler rimbalzare sui muri e sui tetti resi incandescenti da un’altra giornata di sole cocente. Lasciando che la sua eco, poi, resti indelebile nella mia mente. Il Ramadan anche per oggi è sospeso. Sono le 19.32. Ogni giorno si accorcerà sempre di più fino al sorgere della luna nuova del mese successivo, Shawwal, a sancire il termine dell’astinenza e l’inizio dell’ Id al-Fitr, la festa della rottura. Ma per il momento, il Sawn, il digiuno, è interrotto solo dopo il tramonto e solo con un dattero o un bicchiere d’acqua per non affaticare gli organi già provati dalla prolungata mancanza di cibo e bevande. Poi, dopo un paio di ore, seguirà il pasto serale, Iftār.

Le saracinesche delle botteghe nei souq vengono calate giù bruscamente che c’è anche la tarāwīh in moschea. Donne, uomini e ragazzini come un fiume in piena, mi scorrono davanti. Quasi corrono, si direbbe. Corrono, corrono. Strano perché a Marrakech non corre nessuno. Solo qualche mulo recalcitrante, ribellatosi al padrone, a tirare le carrette per i vicoli stretti che se non stai tutto a destra ti investono e buonanotte. La folla si dirige verso Djemaa el-Fnaa per la preghiera serale. Ognuno con il suo fagotto a contenere il tappeto su cui poggiarsi per pregare. Ognuno con il suo cuore da purificare che il ramadan è l’occasione di una vita più buona, del distacco dalle false necessità, la trascendenza del conosciuto.

Si è alzato un venticello fresco, da mettere un golfino e stringersi nelle spalle per qualche piccolo brivido che ti coglie furtivo. Le luci sono quelle blu scuro del tramonto che si è appena spento ma che ancora lascia dietro di sé striature violacee. Ci sono i turisti con il busto appeso alla balaustre in ferro battuto delle terrazze, a guardare giù, verso la piazza. E ci sono tornite ragazze inglesi, dai seni candidi e le scollature arrossate dal sole. Siedono mollemente, come le odalische di Ingres, ai tavolini con i mosaici verde e avorio dei ristorantini e decine di piccole lanterne orientali ne illuminano gli occhi di mille stelle. Indugiano con lo sguardo sulla piazza come su una platea che va svuotandosi per restare silenziosa e piana.

Djemaa el-Fnaa, la celebre “Piazza del Nulla”, è riconosciuta da tutti i viaggiatori come una delle più particolari al mondo. Crocevia della cultura berbera e di quella araba, unisce in sé i figli del deserto e dell’Africa nera. Così ho letto sui libri prima di partire. Cerco con gli occhi i cantastorie, i venditori di acqua, i musicisti, i giocolieri. Voglio vedere gli acrobati, le cartomanti, gli illusionisti. Personaggi sapientemente descritti nelle cronache antiche dei viaggiatori di un tempo che l’hanno visitata.
Ma niente di tutto questo si mostra ai miei occhi curiosi. Lo spazio racchiuso tra le mille lusinghe dei millenni, ha un aspetto trasandato e frenetico. È solo una grande spianata dove ogni giorno, dall’alba alla sera, va in scena la più ingenua commedia della vita. Gremita di venditori e turisti che affollano i cyber caffè e scattano foto con i loro cellulari, ha un tempo scandito più dal ritmo occidentale che dalla calma e pacata vita araba.

Da lontano, da qualche angolo nascosto alla vista, mi giunge la musica ipnotica degli incantatori di serpenti. Il magico suono del flauto ghaytah, un oboe berbero, e il rullio dei tamburelli. Mi dirigo verso quel suono sperando di trovare qualcosa che non mi irriti o mi deluda. Ma trovo solo un gruppetto sparuto di uomini. Seduti sul tappeto logoro, aperto sull’asfalto ancora caldo del giorno, soffiano stridule melodie sul muso di due serpentelli neri posti in una cesta di vimini. Ma i due piccoli rettili non ne vogliono sapere di contorcersi o restare immobili al suono della musica. Se ne stanno tranquillamente acciambellati con la testa ritta nell’aria. Con una dignità che lungi dall’essere sembianza di incantamento è piuttosto una rassegnata consapevolezza di perdita di tempo. Come se avessero scelto loro di essere lì, per non amareggiare i loro padroni che tanto si affannano a catturare l’attenzione sempre più sbiadita di distratti turisti. La musica a tratti si interrompe per poi riprendere tra una chiacchiera e l’altra degli uomini. Si scambiano qualche battuta o semplicemente se ne stanno lì, in silenzio, come sconfitti dalla grande falcata del progresso che ha ammutolito il vero canto e la poesia di un popolo millenario.

C’è anche un uomo con una scimmietta sulla spalla. Si aggira lungo il perimetro ora buio della piazza. Ha un sorriso quasi beffardo e tuttavia triste. Si somigliano lui e la sua ospite. Per quell’espressione degli occhi fanciullesca e burlona insieme. Due figure emaciate e traballanti come personaggi di un’amara commedia dell’arte che, dopo la rapida visione, scompaiono alla vista inabissandosi nella notte.

Cammino lentamente, come stordita, tra i venditori di cappelli e borse di paglia, quelli si numerosissimi. E tra le pile in precario equilibrio di boccette di olio di argan. Dai tanti banchi di street food su cui campeggiano brochettes di montone e merguez, si levano odori speziati e dolciastri.
Ci sono un paio di donne, completamente velate, curve sulle mani di alcune grasse turiste. Per pochi dirham disegnano sulla pelle fiori o foglie con l’henné. Ingenui disegni che poco hanno a che fare con gli arabeschi magnifici degli antichi riti nuziali, benauguranti e di protezione.
Alzo lo sguardo e centinaia di parabole campeggiano sui tetti rossi di Djemaa el- Fnaa.

Niente è più lo stesso. Ciò che mi avvolge è un senso di estraneità eppure, seduta al tavolino del Cafè de France, mi rifiuto di vedere con gli occhi. Li chiudo e respiro profondamente. Un forte, intenso odore di menta e zenzero mi attraversa i pensieri. So che la piazza ha in serbo per me segreti che non svela al turista frettoloso. Ma solo a chi ha tempo interiore. Solo a chi, viaggiatore nostalgico in cerca di storie, diventa egli stesso l’antico cantastorie. Ora, le leggende e le gesta dei re berberi e dei nomadi indomiti sono nel mio spirito. Che non teme di inoltrarsi nel labirinto delle verità mai svelate.

Incanto Errante

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