Sono tornata a Napoli dopo 18 mesi dalla mia ultima volta.
Napoli è ancora più bella in questa giornata d’autunno. Sembra una donna che annusi una rosa e si lasci trasportare sulle rive di qualche lontananza.
Mi lascio fluttuare in ogni direzione tra frotte di turisti, mamme che passeggiano con i loro bambini. Tra chi si siede sulle panchine di qualche giardinetto, affolla metropolitane, sorseggia caffè, sale sui taxi. Semplicemente guarda il mondo con occhi pieni di luce sotto un cielo di molle confluenza di azzurri e di bianchi che rinfrescano lo sguardo e danno vigore.
Ogni scorcio per me è un tempo conquistato nel lento trascorrere che smuove sfere segrete, scava cavità minute dove tutto avviene con la solennità del momento tanto desiderato. Ripercorro le strade a me familiari e salgo, salgo su su per la ripida e lunga salita che da Santa Teresa degli Scalzi arriva a Capodimonte.
Mi fermo prima del bosco che circonda la Reggia, alla solita curva che mi vedeva testimone quotidiana di uno spettacolo di un bagliore mai svanito, mai offuscato da altro che non fosse mare e cielo e, dentro la fessura che li separa, Capri! Quasi come portata via dalla corrente ma pur sempre lì: percepita e desiderata. Ammirata e circonfusa di luce.

Io abitavo poco più avanti, a destra del parco, nel vicolo come un dito storto, una radice non vista. Un’asticella di legno che infili in una fenditura del terreno a scacciare la lucertola di turno. Rivedo la palazzina dove abitavo. Avevo un appartamento ampio e luminoso. Tutto bianco panna e qualche tocco di verde. E pure le tende erano bianche, opulente e danzanti nel vento ad ogni spiffero di finestra o di porta. La palazzina l’hanno rimessa a posto. Quando ci vivevo io era talmente sgarrupata da commuovere. Ora, invece, hanno fatto un bel lavoro. Il giallino pallido della sua antica facciata quasi brilla di un lucore nuovo e le finestre, dalla cornice bianca, ridono davanti al mare. Resto molti minuti, ferma, sotto il balconcino dove ho steso spase di lenzuola di percalle e camiciole da notte in pizzo fitto fitto, bianco, come fossi una sposa disfatta dalla corteccia asfissiante del domani.

Dalla collina di Capodimonte scendo per il vicolo che diventa sempre più tortuoso e stretto fino al Borgo dei Vergini, nel Rione Sanità. Lungo la strada é tutto un tripudio di magliette e calzoncini che se ne stanno appesi a mezz’aria, penzolando da una finestra all’altra sospesi sulla strada. Quanti colori e che profumo delicato di sapone. Un misto di rosa e gelsomino, a tratti pungente, a volte soave come una nuvola bianca svuotata di pioggia. La sera, al ristorante, io e le mie amiche intavoliamo un’intera discussione sul perché i nostri bucati non abbiano quel pregio che invece hanno quelli delle donne dei vasci. Un po’ di invidia ci sale in gola per quelle massaie instancabili e incredibilmente belle che se stanno sempre a cantare e a pulizzare il pezzetto di strada davanti ai loro usci. Cosicché: No, ‘stu vascio non è vascio, ma è una reggia!

Continuo a scendere. Ci sono i camioncini in bilico sulle pietre lucide e lisce del vicolo. Portano pane fresco, frutta, ortaggi e qualche volta pesce. Alluccano forte, con quanto fiato hanno in gola, che così le donne dalle finestre possono sporgersi e calare la loro cesta che si riempie di ogni ben di dio a 85 centesimi al kg. Vabbè qualcosa costa pure 1euro e 50. Giuro!

Dopo le ripide scalinate mi ritrovo nella piazza. Qui ritrovo una delle mie chiese preferite, la Basilica di Santa Maria della Sanità con la pianta a croce greca e il presbiterio rialzato per inglobare la precedente basilica paleocristiana, da cui si accede alla catacomba di San Gaudioso. La Basilica, nota nel rione come chiesa di San Vincenzo ‘O Munacone (il monacone), è un tripudio del barocco napoletano tra marmo e piperno. Ho seguito trepidante il restauro della sua cupola con le maioliche gialle e verdi. Ho aspettato che togliessero tutta la vegetazione infestante, riparato le lesioni nel manto di copertura della cupola e del lanternino. Tutti quegli alberelli di capperi che si erano infilati tra mattonella e mattonella a percorrerle in tutta la loro estensione, a ergersi attraverso tutte le stelle, come a voler fiutare l’aria intorno dall’alto, nella sfrenatezza di luce. Poi finalmente la guarigione. E tutte le Madonne sono tornate a sedersi sugli altari, sotto le volte affrescate, con quel canto sommesso e le mani giunte. Con la loro pietà dischiusa e le comete tra le pieghe degli abiti azzurri. E io sono stata felice come per qualcosa che sorga da macerie e si faccia di nuovo imponenza, fioritura, ornamento audace masticato dalla gloria.

Fuori dalla Basilica, nella luce, il mercato è un tripudio di banchetti di frutta e pesce fresco. Un miscuglio di odori misto a quello di pizza fritta e graffe calde, spolverate di zucchero. Le pasticcerie straripanti di babà nascoste all’ombra di chiese immense e nere. Nere perché non le puliscono, le lasciano abbandonate a spiccare isolate in un’intima zolla di dimenticanza e incuria. Mi chiedo se dentro, Gesù non mormori la sua disapprovazione a proposito e poi, seguendo un copione ormai stabilito da tempo, non si involi, impotente, dagli altari ricoperti d’oro all’oscurità della colonna della sua Flagellazione, che l’ubiquità é suo dono certamente. E Caravaggio pure lo sapeva quando dipinse il suo corpo cereo, ricadente in uno spazio composto, nel crollo meridiano della luce.
Dalla piazzetta dei Vergini sbuco in via Forìa e in piazza Cavour dove infilo via Costantinopoli fino a piazza Bellini. E lì mi siedo al sole, in uno di quei caffè letterari pieni di giovani studenti universitari che un po’ di nostalgia per i miei tempi di studio mi viene. Ma una spremuta fresca con triangolo di dolce al cioccolato e panna mi fanno tornare nel mio spazio tempo tutto godibile tra palato e occhi. Di fronte alla piazzetta tutta verde e rigogliosa di Bougainville, alveare di caffè e localini c’è la biblioteca della facoltà di lettere. Scenografica con la sua rampa settecentesca che chiude piazza Bellini. 250mila libri del dipartimento federiciano di Lettere, la popolano. La Brau, una meraviglia di Incunaboli, cinquecentine e anche un codice leonardesco, gira su tre piani escheriani. Dalle finestre si gode la notevolissima danza di fregi barocchi del dirimpettaio Palazzo Firrao, difficilmente visibili dalla strada. Napoli è così: ti sorprende sempre con il suo sguardo serio e il suo cuore invecchiato e roso da mille sospetti. Ma che pur sempre ti nutre e ti abbraccia. Stanza di casa materna fuori dal tempo, immutata, con il piccolo comodino accanto al letto e la luce fievole ma perennemente accesa. Innocente senza essere smemorata.

Da Piazza Bellini a Port’ Alba fino a Piazza Dante con l’emiciclo del Vanvitelli tutto rosso e bianco. Un luogo che non sai spiegare. Uno spirito benevolo in una prospettiva grandiosa. Una versione della vita del tutto estranea ai meccanismi biechi di certe menti che finisce per trionfare sul deprimente vuoto. Ce l’hai davanti, la prorompente bellezza, quasi una profanazione.

Si arriva ai Quartieri Spagnoli lungo la lunghissima via Toledo. Si pranza da Nennella poi, giù, fino a piazza Plebiscito tra la chiesa di San Francesco e il Palazzo Reale. Da qui si vede il mare. Il golfo e il cielo a semicerchio e la ritrovata speranza per tutto ciò che si spera con quel senso di appartenenza che non abbandona mai.

Tutto qui è vicino alla mia anima. Il disordine, perché io sono di un ordine maniacale e il caos mi riequilibra; il coraggio, perché sommato al mio mi rende invincibile; il sole dell’allegria perché a me, che sono malinconica, mi colora gli occhi; la gentilezza, l’amicizia, l’affetto e la generosità che per me sono valori imprenscindibili. E la spiritualità. Quel forte senso del divino che permea la terra qui. E il volto della sua gente. Le mani e gli abbracci sanno sempre di buono. Di pacifico. Di carità cristiana. Non c’era nulla ad offuscare una gioia di vivere che qui ho assaporato in pieno. Partire, lasciare Napoli e la sua gente, é come guardare un vasto oceano tranquillo che si allontana sempre più da te mentre la terra prende il sopravvento e ti inghiotte con mille pensieri e mille paure. Tu, a Napoli invece, non hai mai paura. Non ti senti mai in pericolo. Vivi spensierata pur tra molti problemi. Ma non ti pesano. Ti svegli la mattina sempre pronta alla lotta. Senza arrenderti mai. Perché basta guardare il mare, il golfo e il cielo a semicerchio per trovare fede e speranza. E poi ci sono le sue isole. Madri di abbracci. Arcipelaghi di serenità. Addio Napoli. Addio amici cari. Non è vero che non tornerò più. Tornerò. Napoli resta nel cuore per sempre. Come una stella polare caduta su una terra di fuoco. Fredda e calda. Azzurra e amaranto. Mai “lontana” ma “per sempre”.

Testo e fotografia di INCANTOerrante

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