Ho visto “Indivisibili” un anno dopo la sua uscita in sala, in una notte ancora torrida di fine agosto, in cui non riuscivo a dormire. Terminato il film non ho più potuto prendere sonno per il resto della notte, avendo ricevuto in eredità un’emicrania persistente e dolorosa per quel turbinio di emozioni che questo film ha suscitato in me.

Un film potente, poetico, terrifico, visionario, magnifico, l’ultimo film italiano visto in ordine di tempo, mi ha rimandato immediatamente a “Inseparabili” di Cronenberg. Film del 1988, interpretato magistralmente da Jeremy Irons, che interpreta entrambi i gemelli monozigoti (non siamesi), Beverly e Elliot. Tuttavia non ci sono le atmosfere oscure e statiche del film di Cronenberg che affronta il legame della corporeità e identità in una malformazione, una mostruosità che non germina tanto dalla fisicità (come invece per le gemelle Dasy e Viola nel film di De Angelis), quanto dalla psiche torbida dei due protagonisti maschili che decodificano e interpretano la loro condizione di fratelli gemelli con l’enfatizzazione tragica e ineluttabile che conduce al terribile epilogo. Nel film di De Angelis, sottratto dunque al serbatoio dell’immaginario cronenberghiano, il supplemento allegorico, che pur esiste, non usurpa il suo oggetto né lo sostituisce. Semmai è solo un’aggiunta che non eclissa o oscura il significato da cui procede. Così come è assente la connotazione claustrofobica che in Cronenberg è l’idea rilevante dalla messa in scena. Nel film Indivisibili sarà proprio l’esterno il vero spazio tragico.

Il paesaggio della 
storia, infatti, è una Castel Volturno in rovina, colta nel suo inesorabile decadere dove i segni della presenza umana, derelitta quanto surreale, rientrano allegoricamente nel paesaggio. Nessuna differenza, né cromatica né plastica tra il mare e la spiaggia da un lato, le strada dissestate, gli edifici fatiscenti, le case, dall’altro. Le cose dell’uomo, pure esse in disfacimento, sono assorbite da questo paesaggio, senza dimensione simbolica o metaforica, in un’assoluta indistinzione figurativa e spaziale. In una dominanza monocromatica di grigio o blu spento, vagamente vintage, è un paesaggio che comunica un’impressione di angustia. Un luogo sottratto al flusso del tempo, ma anche destinato a finire prestissimo, inghiottito dalle pozzanghere e dal fango, sommerso da quello stesso mare calmo che lo riflette.

I personaggi sono prostitute che, all’alba, fanno ritorno lentamente, scarpe in mano e andatura rassegnata, in case fatiscenti e dai deboli colori pastello che non restituiscono dignità e futuro. Un padre, giocatore d’azzardo, alla guida di un furgone dipinto di azzurro dove scorrazzare le figlie per farle esibire in canzoni scritte e composte da lui stesso in cerimonie di battesimo e comunioni. Durante matrimoni di cafoni camorristi e festicciole di paese, in un turbinio di degrado e teatralità, cifra estetica di uno spaccato umano roboante e volgare. Meschino e a tratti infido. Una madre fumatrice d’erba, zii di dubbia inclinazione sessuale, un impresario musicale dedito al malaffare e un parroco avido che, poco incline all’autentica diffusione del Verbo, si giostra tra religiosità strana, sincretica, dispensandola ad un popolo variopinto ed eterogeneo di derelitti, prigionieri tra segreti risentimenti e superstizione. Uomini e donne di colore che cantano testi pseudo sacri, su una spiaggia isolata e vuota da altre presenze umane, un po’ in inglese e un po’ in quella lingua strana e arcaica che è il dialetto di Castel Volturno in una miscela che resterà memorabile. Personaggi che tuttavia, pur ritratti con impietosa sguaiatezza, non mancano di pietà. Quella Pietas profonda, tutta felliniana, che permette di suscitare più di qualche proiezione emotiva dello spettatore. Dove il momento del giudizio se pur avanza non resta, volatilizzato in una nube eterea di sospensione ed incredulità.
Indelebile, in me, per la sua forza di incisione, la scena della quasi sposa, donna di colore, con i bigodini in testa, affacciata ad un balcone in bilico, a cui un fidanzato smilzo e bruttissimo regala la serenata neo melodica tra palazzi in costruzione e una piscina in stato di semi abbandono come una ferita aperta che tuttavia non sanguini più, prosciugata da un sole cocente e indifferente.
Tutto questo non scalfisce il candore e la purezza, la bellezza e l’innocenza di Dasy e Viola e del loro mondo interiore.

Le due gemelle siamesi che, unite tra loro tramite un lembo di pelle, carne e muscoli, troveranno la forza per affrancarsi da un destino in un primo tempo accettato con leggerezza di cuore e di spirito, poi detestato non appena appresa la notizia che un’operazione chirurgica le può liberare per sempre dall’interpretare il ruolo di fenomeni da baraccone. Rifiutano quella medesima porzione di spazio condiviso, fonte di superstizione in questa fatiscente corte dei miracoli, a relegarle al soffocante ruolo di sante, creature soprannaturali, evanescenti, pure. Creature che perdono la tridimensionalità per divenire vestali annichilite di un’emanazione grottesca e disperata di un’umanità ai margini.
La loro vicenda ha un respiro vasto dove, in orchestrazione sottile l’ossessiva volontà di Dasy si contrappone a quella pacifica e dolce di Viola. Fino al capovolgimento finale, al ribaltamento dei ruoli dove Viola risulta essere la più forte. “Tu si chiù forte ‘e me”…, le dice Dasy prima dell’ultimo gesto, disperato e risolutivo.
Così la vicenda assume via via un crescendo di pathos e angoscia. Con il disancoraggio dalle sicurezze per precipitare nell’inquietudine dove il caos e il destino si intersecano e tutto si drammatizza. Il tempo individuale delle gemelle rompe con il tempo storico e fonda il nucleo drammatico in una mancanza di dimensione non più conciliate con la possibilità di dare coerenza sia ai propri sentimenti sia al proprio futuro visto come gabbia di precarietà e di non prevedibilità. Il nucleo lirico del film si svolge e si dipana a cominciare da questa presa di coscienza. Dall’intimismo sofferto delle gemelle che si rivela anche nei dialoghi che rompono l’involucro dell’insufficienza per divenire vocazione. Un’incrinatura che diventa grido e si insinua lentamente fin dove si sradica la favola per diventare disagio nello spettatore.

Fino all’epilogo. Le alternative non hanno soluzione se non tragica. O accettare un destino avverso, e quindi rassegnarsi, o morire. Il senso di una vita che scorre e si drammatizza fino alla scena della processione, ha il uso fulcro nella figura del padre.
L’uomo che in più di una scena sbuccia una mela e la divide con le sue figlie, allungano spicchi di sentimentalismo che pur ha una sua ragione di essere in quel regno di derelitti e ultimi. Quella mela che diventa il pasto della condanna, lo strumento di una remissività richiesta e mai ottenuta. Così come il coltello con cui sbuccia il frutto che diventerà strumento di assoluzione quando ne inciderà le carni per affondare in quelle ferite le stigmate di una condizione mai risolta se non nella adesione e nella rassegnazione che le ragazze non vogliono percorrere. Il coltello che farà del padre un nuovo Abramo, immolando i propri figli ad un volere superiore per avidità, per solitudine disperata e abissale, per incapacità di evolversi ad una situazione superiore di spiritualità e conoscenza e che genererà in un crescendo di suspence l’atto finale che non si evolve, tuttavia, realmente nel tragico. Il fiabesco alla fine prevale con un epilogo che sicuramente farà tirare un sospiro di sollievo allo spettatore ma che priva, a mio parere, la pellicola del vero senso di novella nera. Decadente e pittoresca.

Un epilogo che non sembra coerente con il corpo del film, cedendo alla fatale tentazione di raccontare un riscatto assolutorio, una condanna che non si compie, scarnificando la gravità del disagio, il sogno che alfine si realizza.
Le due gemelle, senza più speranza, ad un passo dall’abisso, compiono si l’ultimo gesto coraggioso e tragico contro uno spaccato di società tirannico e verticale in cui non avere spazio d manovra, ma la narrazione torna ad essere fin troppo lineare, senza smottamenti e affondi feroci. Il dialogo sferzante delle sorelle, a volte comico altre commovente diventa un monologo, un vagheggiamento di libertà che alla fine si compie. Trasportandoci fin dentro un sogno di luoghi comuni e di banalità. Verso quel finale riportato sul sistema binario tra bene e male, scarna dicotomia che alla fine prevale.

Comunque un film che resta d’autore la cui musica di Avitabile con le sue immancabili contaminazioni aggiungono bellezza e unicità.

Incanto Errante

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