Tanto tempo fa in Boemia viveva un re ambizioso. Coltissimo e grande mecenate d’arte, fu educato e istruito in Francia. Di ritorno da Parigi condusse con sé due tesori inestimabili. La bellissima e molto amata moglie Bianca di Valois e una alquanto bizzarra, visionaria concezione urbanistica. La prima gli diede quattro figli, la seconda sudditi orgogliosi di vivere in una città che conobbe la sua prima âge d’or della Boemia.

Questo re era Carlo IV di Lussemburgo, re di Boemia e imperatore del Sacro Romano Impero e la città era Praga. La città che in meno di 50 anni, dalla assoluta decadenza in cui versava, si elevò ad uno dei più importanti centri culturali e spirituali d’Europa nonché capitale de facto dell’Impero. Praga caput regni, si diceva…

Questo sovrano generoso e lungimirante fece edificare molti monumenti. Il Castello, la Cattedrale di San Vito, l’Università Carolina e persino un “Muro della fame”. Costruito lungo la collina di Petřín non aveva alcuno scopo difensivo ma diede lavoro ai poveri che in tal modo poterono guadagnarsi da vivere in un periodo di grave carestia che investì il Paese.

Ora, Carlo IV, aveva un sogno. Far costruire un ponte che collegasse la Città Vecchia al quartiere di Malà Strana. E così avvenne.
Tra mito e leggende si racconta come questo monumento avesse già nella sua data di fondazione quell’alone di mistero e carattere alchemico che contraddistingue tutta la città boema. Il ponte infatti fu edificato il 5 luglio 1357 alle ore 05 e 31 minuti. Ovvero quando la data e l’orario formavano la serie unica ascendente e discendente di numeri dispari: 1-3-5-7-9-7-5-3-1-. Forse l’eccentrico re volle accertarsi, con questo espediente, che il ponte restasse incolume nei secoli visto che il precedente, sulle cui rovine fu eretto, il vecchio ponte Giuditta, del XII sec., fu letteralmente spazzato via dall’inondazione del 1342. Solo un unico arco superstite resta della sua antica bellezza, ammirabile dal fiume.

È il Kamenny most, il ponte di pietra di Praga, il quale assunse l’attuale nome di Karlův most, ponte Carlo, solo nel 1870.

Da quel 5 luglio sono trascorsi 660 anni ed ora, alle 5 e 30 del mattino, ci sono solo poche persone ad attraversarlo nella prima luce di questo gelido giorno di aprile. Per la maggior parte si tratta di fotografi in cerca di uno scatto di grande effetto e poi c’è qualche temerario, impegnato nel suo allenamento giornaliero di running. Ci sono anche io infagottata in un grosso cardigan grigio e sciarpa di lana a righe azzurro polvere. Il sole sta sorgendo e illumina di una luce tenera la pietra scura del ponte e la sagoma imponente delle sue statue.

Sono intimorita da tanta bellezza. Sognavo da tempo di raggiungere Praga ed ora che sono qui mi guardo attorno con occhi curiosi e ammirati. Percorro il ponte da una parte all’altra in tutta la sua lunghezza e torno indietro. Vado piano che voglio godermelo. Mi concentro su ogni passo, su ogni muscolo. I suoi 520 metri di lunghezza, 10 metri di larghezza, i 16 archi a sostenerlo e la grandiosa galleria di statue barocche lungo i parapetti tra la rive droite e la rive gauche della Moldava, non lasciano indifferenti.

Poi arriva lei. In quel chiarore ancora opaco dell’alba praghese. Un cappottino nero e guanti tagliati all’altezza delle dita che risplendono bianche e affusolate. La sirenetta della Moldava, la polena dell’Est che apre le braccia al giorno mentre i corvi volano giù, giù, verso il fiume.

Tra queste 30 statue scure, di solitudine, di viltà, tenacia, colpa, legge, adorazione, lei se ne sta dritta dritta tra loro come la 31esima presenza in carne ed ossa a rappresentare l’innocenza. Un cappellino di lana, pure esso nero, non riesce a nascondere la lunga capigliatura rossa che scivola sulle sue spalle come un fiume di lava. Un rosso così acceso e intenso che avrebbe destato orrore nel re Venceslao che condusse a morte Jan Hus, il ribelle, l’ammutinato e non avrebbe esitato a ravvisare in lei identico odore di eresia. Ma tutto il nero dei suoi abiti non adombra i tratti del suo viso, chiarissimo e diafano, velato appena da un’ombra di impersuasa malinconia. Ha con sé un violino. E dopo le prime note di accordo, inizia a suonare una melodia allegra e nello stesso tempo struggente. Proprio come Praga che è insieme colorata nelle sue dolci linee curve di cupole verde pastello o rosa chiaro e scura nelle sue cento torri alte e gotiche. Ad ogni nota, come a volte succede con la buona musica, si teme di morire, ma invece ti cadono intorno da tutte le parti, ricordi, immagini, sogni che ti stordiscono un poco e un poco ti scaldano il cuore. Incoronata dalla sua stessa musica chiude gli occhi ed è un tutt’uno con il suo strumento, con l’archetto che va su e giù come uno sciabolare elegante e magnetico. Ora il ponte è pieno di passanti che si fermano ad ascoltare la sua musica. Grandi nuvole arrivano e restano lì, ferme e immobili pure loro, portando un vento nero. Le statue, che dicono si animino solo di notte per vegliare sui bambini che dormono nella vicina isola di kampa, sono come tornate in vita e sembrano volersi involare, pronte a lasciare la riva sguarnita. Sono San Cirillo, San Cristoforo, Santa Anna, San Vito, Sant’ Antonio da Padova. C’è pure la Madonna con i ss. San Domenico e Tommaso D’aquino. Sono lì, distanti l’una dall’altra solo di pochi passi, strette in un mormorio come di stormire piacevole. C’è anche il gigantesco Crocifisso della Pietà.

A lui spetta il merito di essere stato la prima statua ad essere collocato sul ponte nel lontano 1496. Poi vennero tutti gli altri. Ma prima, dopo il Crocifisso, fu la statua di San Giovanni Nepomuceno. Il grande martire che ebbero i cristiani come i protestanti ebbero Jan Hus. Furono i Gesuiti a volere la statua. La Compagnia di Gesù fu chiamata a Praga nel 1556 per ricattolicizzare una Boemia ormai protestante al 90 per cento. Ai discepoli di Ignazio di Loyola si deve, dunque, l’aspetto barocco di Praga. Il loro “Giovannino” (era molto piccolo di statura), si rifiutò di sottoscrivere un documento facendo inferocire talmente tanto re Venceslao che questi lo fece arrestare, torturare ed infine gettare giù da ponte Carlo. Era l’anno del Signore 1393.
Ma questa mattina, al suono di questa musica incantevole, tutto sembra dimenticato e sepolto dal tempo. Le statue restano ammantate dai loro segreti e dai loro misteri con un sorriso mesto sul viso di pietra. Che forse avrebbero voluto sorte migliore invece di pietrificare in sospiri ardenti, nella eco dei propri lamenti. Annichilite nei secoli.

E così tra cattolici e protestanti, gesuiti e hussiti. Tra santi, martiri, re e cavalieri, ognuno col suo destino triste e fatale, resta lei. La bellissima violinista dai capelli rossi e da viso fresco e ardito come un filo d’acqua che scenda da una roccia e la rinfreschi. Si dice che ogni mattina prima dello spuntar del giorno accordi il suo violino e incominci a suonare per poi dileguarsi con il sole alto nel cielo. Mi piace pensare che sia Bianca di Valois, la regina, e che suoni ancora per il suo re.

Strattonata dalla folla di passanti che ormai invade il ponte, la perdo di vista. La sua musica è la cosa che mi mancherà di più.

Praga ponte Carlo

Foto e testo di Incanto Errante

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here