Piove in questo 13 febbraio 2016. Giorno in cui decido di visitare il campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Il terreno polveroso diventa fango. Le pozzanghere riflettono in modo sinistro i lunghi corridoi di viottoli e il filo spinato che li separa con la spietata geometria del terrore. Intorno a me, i blocchi contrassegnati da numeri. Come un civico della morte. Conto molti numeri. Troppi. Ciò vuol dire una cosa sola. Quasi un intero popolo, innocente e fiero, è stato sterminato senza un perché che la Storia possa giustificare. Continuo a camminare. Il cielo è un gelido color tortora e fa da sfondo alla memoria di una tragedia di cui l’umanità non finirà mai di chiedere perdono.

Parlo della Shoah. Dall’ebraico ha-shoah, la Catastrofe. Cosi la definirono gli ebrei, la loro persecuzione prima, e il loro sterminio in seguito. Lo stesso concetto che in lingua tedesca viene tradotto con la parola Endlosung, Soluzione finale, e che gli inglesi denominano con Holocaust, e gli italiani con Genocidio. Tante lingue, molti termini, per identificare una sola vicenda: l’assassinio sistematico, intenzionale, implacabile degli ebrei d’Europa.

Mi sono aggregata ad un gruppo di altri italiani per usufruire della guida che mi spiegasse fatti ed eventi nella mia lingua. Una giovanissima polacca, bionda ed esile, ci parla in un italiano pressoché perfetto. Ci conduce all’interno dei padiglioni dove sono esposte fotografie sulla deportazione. Immagini in bianco e nero ci mostrano uomini, donne e bambini scendere dai treni super affollati, ignari del loro destino, al termine del loro viaggio; soldati tedeschi suddividere, in file ordinate e sempre più ingrossate, chi vivrà da chi morirà, con il solo gesto del pollice; bambini di tutte le età, avviarsi verso le camere a gas con uno sguardo stupito sul volto. Alcuni di loro portano in braccio i fratellini di pochi anni.
Sono sempre più sgomenta. Guardare un film o un documentario non ti da la portata reale di quanto accaduto. Solo lì, calpestando quel terreno che hanno calpestato tutti quegli ebrei innocenti diretti verso morte certa, ho la comprensione profonda del male assoluto. Un’esperienza insieme terribile e sconfortante.

Non posso fare a meno, salendo i piani dei padiglioni, di guardare gli scalini consunti e lucidi e di sentire l’eco dei tacchi degli stivali. Decine di soldati tedeschi che salivano o scendevano per recare ordini o per obbedire a degli ordini di morte e violenza. Vengo distratta solo dalla voce chiara e limpida della guida che ci incita a proseguire. Ci spiega che tutta la vicenda persecutoria si sviluppò nell’arco di dodici anni, dal 1933 al 1945. Lo sterminio si protrasse negli ultimi quattro anni. Troppi per impedire l’emorragia di deportazione e di sterminio che ormai sembrava non avere fine. Due terzi dell’ebraismo europeo negli anni Trenta, 6.000.000 di ebrei, sono stati spazzati via dall’odio, dall’indifferenza, dall’esaltazione, dalla banalizzazione del male.

Restare esterrefatti e inorriditi non ci restituirà quei 6.000.000 di uomini, donne e bambini. Ma almeno ci farà restare umani di fronte al dolore e ai soprusi che la Storia ancora e sempre compie e compirà.

Incanto Errante

 

 

 

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